Avevo 17 anni quando vidi per la prima volta 'Il buono, il brutto, il cattivo' di Sergio Leone, certo fu un po' tardi, di solito Leone è uno di quei registi che vedi da piccolo insieme ai nonni mentre essi ti spiegano cosa effettivamente stai vedendo, ma questo non è importante; mentre Lee Van Cleef, Clint Eastwood e Eli Wallach si allontanavano dal centro della piazzetta collocata dentro il cimitero messicano, mi accorsi che il mio corpo stava tremando per via dell’euforia che quel momento stava scatenando dentro di me; non sapevo bene cosa fosse, non mi era mai capitata una cosa del genere, avevo sempre visto film solo e unicamente per curiosità, solo per vedere un’altra storia, senza rimanerne quindi coinvolto, restando uno spettatore esterno che si limita ad osservare da lontano. Da quel giorno decisi di non vedere più semplicemente i film, ma di vedere il cinema, di smettere di guardare unicamente blockbuster o filmetti stupidi che mi avrebbero fatto solamente perdere tempo, ma di iniziare a conoscere la storia di esso, di rispettarlo in quanto arte e non considerarlo più come semplice intrattenimento, come un’industria che produce in base a quello che lo spettatore medio vuole vedere.Iniziai così a divorare filmografie su filmografie, a scoprire sempre nuovi registi e a farmi un’idea su di loro, documentandomi dopo la visione di ogni film, partendo da cinema europeo per poi passare a quello asiatico e poi di nuovo tornare indietro, scoprire poi i massimi esponenti di nazioni di cui prima cinematograficamente non si sapeva nulla.Tutto questo per rivivere quel primo momento, per sentirsi di nuovo parte di un film, per arrivare al punto di coinvolgimento tale che il film visionato diventi determinante dello stato d’animo; cito quindi una frase che recita Samuel Fuller (regista statunitense) nel film “Il bandito delle 11” di Jean-Luc Godard che rappresenta l’idea che ho della settima arte: “Il cinema è come un campo di battaglia: amore, odio, azione, violenza, morte, in una parola: emozione”
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"Il buono Il brutto Il cattivo", Sergio Leone (1966) |
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"Pierrot le Fou", Jean-Luc Godard (1965) |
Credo sarebbe più comodo per tutti, e specie per me, affermare che non ho sin da subito avuto un approccio al cinema. Chi è che può affermare di averlo avuto, del resto? Complimenti a chi può fare una simile affermazione. Non ho avuto subito un approccio al cinema poiché, innanzitutto, come ogni ragazzino che si rispetti ho vissuto un primo avvicinamento a film specifici. Che si parli della Disney, dei film più grezzi dei fratelli Coen o di Mamma ho perso l'aereo. Visioni molto randomiche, senza quindi possedere delle intenzioni o una visione d'insieme. Il mio primo reale approccio al cinema in quanto tale e in quanto mezzo espressivo risale, piuttosto, a poco dopo il raggiungimento della maggiore età: a cavallo del 2012, per essere esatti.Per quanto possa sembrar banale affermarlo, quello per me fu un periodo di enorme fragilità psicofisica. Per motivi di varia natura, c'era in me un desiderio enorme di cambiamento e di maturazione. Ero in intorpidita ricerca di qualcosa cui ancorarmi, ma non per lasciarmi trascinare da esso: piuttosto per usarlo a mio vantaggio, per far sì che quella cosa mi aiutasse di nuovo a provare qualcosa di sano per poter poi allargare questo nuovo sentimento anche ad altro, o ad altri.Tutto ciò credo di averlo poi raggiunto, verso la fine dell'estate del 2012, e certamente per molteplici cause e contributi. Tuttavia, tra queste, ve n'è una in particolare che riconosco e che, oggi, amo in un ampio senso del termine. Si parla, e immagino non ci sia alcuna sorpresa in ciò, del cinema.Non ricordo esattamente con quale pellicola iniziò: poteva esser tanto un von Trier, quanto un De Sica, quanto anche un Kurosawa o un cortometraggio di Keaton. O, perché no, La città incantata dello studio Ghibli (cosa che ancora potrebbe apparir scontata). Non è però importante, per me, ricordarmi di questo passaggio. Certamente, ci sono moltissimi film specifici che hanno letteralmente scavato ferite benefiche nella mia mente e han tracciato solchi che si sono irrimediabilmente intrecciati tra di loro. Ciò che amo di tutti essi, però, più che la loro individualità è la forza espressiva, la capacità di aggiungere un livello di realtà rispetto al nostro. Un livello che non si trova al di sotto, o al di sopra, ma che procede lungo un percorso parallelo. Ciò che amo del cinema, attualmente, non è esattamente quel che è più facilmente accessibile alla coscienza: piuttosto, ciò che è quasi subliminale. Io amo, anche inconsapevolmente, i concetti che si nascondono dietro una scelta. Amo le forme e le configurazioni che si dispiegano davanti ai miei occhi, i suoni (al di là della loro eventuale e non necessaria sintassi) che irradiano il mio udito, le inquadrature che dirigono la mia attenzione, i colori che si incastrano (magari anche in modo a prima vista 'cacofonico'), e la mia comprensione, amo la cultura, la storia, il pensiero politico da cui sorgono certe idee messe a disposizione della vista, e amo che l'esperienza di un'altra persona, le sue idee, le sue gioie e i suoi dolori si mostrino con una tale forza davanti al mio sguardo e davanti alla mia comprensione. Il momento della 'visione' (che è anche un termine così ampio e bello) non è per me un momento di distrazione dal mio vivere quotidiano, o di unico intrattenimento: è anche un momento di arricchimento, di conoscenza, di comunicazione. Non esisto solo io in quella stanza o nella sala. Sensazioni multiple, altrimenti inaccessibili, mi vengono trasmesse da individui che hanno avuto l'intenzione di trasmettere e comunicare (al di là dell'oggetto originario della comunicazione), e contribuiscono a rendermi l'individuo che sono nell'attualità. E di questo sarò sempre grato.
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"Sherlock Jr.", Buster Keaton (1924) |
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"Spirited Away", Hayao Miyazaki (2001) |
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