venerdì 23 giugno 2017

Da "Funeralopolis - A Suburban Portrait" al senso del documentario

Abbiamo avuto la possibilità di vedere in anteprima Funeralopolis - A Suburban Portrait di Alessandro Redaelli, un'opera tutta italiana, presentata al Biografilm Festival di quest'anno, che ci ha portato a riflettere su quello che è il significato del cinema documentario.

Senza troppi giri di parole veniamo catapultati nella vita di Vash e Felce e subito capiamo che direzione prenderà il film. Ci teniamo pronti a osservare decine di aghi che bucano la pelle dello stesso gruppo di giovani disadattati. I luoghi ripresi sono certamente coerenti con il genere di oggetti-soggetti con cui lo spettatore entra in cruda intimità. Raramente si ha a che fare con spazi pubblici che non puzzano dell'odore di vomito e eroina di cui i protagonisti sono pregni, e quando questo accade è attraverso un rapido montaggio di immagini, quando inquadrature e movimenti di macchina decidono di acquisire più spessore nei confronti della narrazione. È proprio l'elemento registico, nel momento in cui questo raggiunge il suo picco, a dichiararci le intenzioni dell'opera. Questa, infatti, sembra perseguire la sua direzione iniziale senza deviazioni, fino a quando non capita qualcosa di insolito. Uno dei protagonisti (Vash) dice di spegnere le telecamere, probabilmente per entrare in un luogo dove è pericoloso filmare, dopo un po' il film riprende con immagini girate col cellulare (credo) in questo luogo, immagini forti, di siringhe infilate nel collo, dove la componente musicale aiuta a creare un buon clima di tensione. Questo mi ha ricordato un'elemento essenziale del cinema documentario: il mistero. Il luogo del mistero inteso come luogo dello spaesamento, ossia dove non riusciamo ad orientarci, il luogo dove si trova ciò che a noi è sconosciuto, è il luogo del documentario. Nel momento in cui il regista/spettatore entra nella realtà di Vash e Felce, quando entra nelle loro case mentre si riempiono di droga fino al limite, quando quindi raggiunge il posto dove non può più orientarsi da solo ma è costretto a seguire assiduamente chi quei luoghi li conosce perfettamente, capisce di essere nel documentario. Così però questo tipo di cinema ci inizia ad apparire come un luogo pericoloso e questo diviene senza dubbio evidente quando Herzog, uno dei documentaristi più importanti al mondo, si avvicina troppo a un vulcano che potrebbe eruttare (La Soufrière, 1977), portandoci, così facendo, difronte a quello che potrebbe essere il senso del documentario, ossia andare oltre ciò che è possibile riprendere. Nel caso di Herzog, però, è la natura a decidere cosa concedere alle riprese del regista tedesco e lui prende questa sfida come un'opportunità per eviscerare le possibilità della natura. Questo senso di andare oltre ciò che può essere ripreso, in Funeralopolis, invece, ci viene incontro proprio nel momento prima descritto, quando il regista inizia a riprendere col cellulare dove non può usare le telecamere. Qui il limite è imposto in modo razionale dall'uomo, di cui la propria stessa natura impedisce di riprendere la propria essenza. Se, tuttavia, questo espediente ci permette da una parte di oltrepassare quel varco, sono presenti molteplici situazioni, momenti, in cui è chi si trova davanti la cinepresa a oltrepassare un confine che va a modificare irrimediabilmente la natura stessa del contenuto, in questi momenti, Vash e Felce (certe volte esplicitamente per necessità della scena, altre volte meno esplicitamente ma pur sempre a causa della forma e della rete delle scene stesse) sembrano mostrarsi ben consapevoli degli occhi di chi osserva, del soggetto oltre l'oggetto, e irrimediabilmente il loro modo di porsi, di intonare nel dialogo, di muoversi nello spazio visibile ne viene alterato. Ma per definire l'alterazione della realtà bisogna prima interrogarsi sul significato di "realtà" nel cinema e in consecutiva chiedersi cosa differisce Funeralopolis dal cinéma vérité? Quest'ultimo trova nel suo nome la sua stessa definizione in un rapporto di causa efficiente: la verità è un effetto del cinema. Si tratta di una relazione ambigua, poiché quel che il cinema rappresenterà sarà irrimediabilmente verità in quanto identità con gli oggetti stessi che si troveranno all'interno dell'inquadratura. Malgrado ciò, non si può negare come al di fuori di un framing esistano relazioni tra gli oggetti rappresentati e proprietà di quegli oggetti stessi che falliranno nell'atto riflesso e, per il regista, volitivo e intenzionale della comprensione (intesa come presenza nell'immagine). Sarà forse più adeguato parlare - specie in questo caso - di cinema osservazionale, se non anche di cinema diretto: un cinema in grado di applicare a sé la realtà in un atto allocentrico rappresentandola nella sua reazione più spontanea. A modificare il rapporto col reale è, quindi, la presenza visibile o invisibile della macchina da presa, che agli occhi di Vash e Felce si presenta come una possibilità di mostrare seriamente quello che sono, più volte infatti raccontano alla telecamera della propria vita e delle proprie idee di pensiero. Ciò si scontra con la volontà di rappresentare senza filtri la vita dei due, ossia si scontrano il lato biografico e il lato documentaristico del film. Se quindi da un lato ci è piaciuto lo sforzo registico dietro tutta l'opera (supportato da una buona fotografia e un buon montaggio), dall'altro lato, ciò che ci dispiace è che il film non abbia avuto la possibilità (o il tempo) di risolvere questi suoi "dialoghi interiori" e che non abbia potuto esaurire le proprie immagini. Funeralopolis, infatti, il cui titolo rappresenta una città caratterizzata da riti funebri, manca proprio dell'immagine di quel "funerale" che per tutto il film si percepisce ma non si vede, forse tagliato a causa di esigenze di produzione.