venerdì 23 settembre 2016

Recensione - Halley: l'uomo come cometa che brucia e si sgretola

"Perché ci ammaliamo e moriamo?" questa è la domanda che si fa Beto e allo stesso tempo Sebastian Hofmann, regista messicano autore di "Halley" (2012). 


Una domanda a cui è impossibile rispondere ma, guardando questo film, allo stesso tempo impossibile da ignorare. Hofmann ci mostra da vicinissimo i dettagli della malattia di Beto, ci mette difronte alla putrefazione della sua carne, ai profondi tagli nella sua pelle, alla lenta distruzione del suo corpo e della sua vita. Halley è quindi la storia di uno "zombie" - inteso più come "non vivo" che come "non morto" - consapevole della trasformazione che sta avendo e ormai totalmente abbandonato ad essa: la malattia lo rende sempre più debole e lo costringe ad abbandonare lentamente le cose che caratterizzavano la sua vita monotona, e ogni volta che un tassello della sua monotonia viene distrutto, Beto si accorge di essere sempre meno vivo. Nonostante la sorte a cui lo ha costretto - poiché ogni personaggio è frutto della mente del regista - Hofmann non ha alcuna pietà per il suo protagonista, poiché il suo corpo muore ma la sua mente rimane lucida, e viene circondato da una realtà a lui totalmente nemica: come la palestra aperta 24h dove lavora come guardiano notturno, dove corpi sani ostentano al massimo la potenza dei loro movimenti, quest'ultimi catturati con attenzione eccessiva dal regista, come se volesse infliggere un'ulteriore tortura a chi è costretto a guardare i muscoli degli altri sapendo che i suoi sono ormai morti. Oltre ciò, Beto è completamente solo, vive da solo, mangia da solo ed affronta da solo la sua trasformazione; la solitudine viaggia parallela alla sua malattia e alla stessa velocità, arrivando ad incidere lo stesso peso sulla sua vita.


Si può essere soli anche senza essere malati però, ed è questa la sentenza di Hofmann che più ci colpisce, e ce lo ricorda quando una donna, capo di Beto, viene rifiutata proprio da quest'ultimo, che con una frase semplice: "tu sei una donna sola", cessa in un secondo la libido di entrambi e li riporta alla realtà, poiché egli è già saturo della sua solitudine e non vuole - e il suo corpo non glielo permette - farsi carico della solitudine degli altri. Il protagonista di Halley è quindi come una cometa (appunto la cometa di Halley del titolo), egli si trascina lentamente e con lentezza si dissolve come la cometa si dissolve nello spazio, si sgretola, smette di "bruciare", smette di percorrere la sua strada e si accascia a terra pronto a scomparire, ma così come la cometa è destinata a ritornare, anche Beto ritorna, rimanendo incastrato in un limbo tra la vita e la morte. Con la consapevolezza di questo limbo, nella parte finale del film, Beto decide di lasciarsi andare al suo bisogno di vivere, bisogno che raggiunge un limite che il suo corpo non può sopportare, ma che Beto "distrugge" pur di soddisfarlo; e il film si conclude con le due inquadrature, a mio parere, più belle e allo stesso tempo più forti del film: il corpo mutilato della "cometa", e le mosche nate dalla sua carne, che volano in un barattolo. 





mercoledì 21 settembre 2016

Due parole su The VVitch: un "nuovo" horror indipendente


The VVitch (A New-England Folktale) non inizia con una lenta introduzione ai personaggi: viene inquadrata prima la foresta - elemento fondamentale del film, un luogo che rinchiude i protagonisti nella propria vastità - poi il bambino che un secondo prima c'è e il secondo dopo no, infine la strega del titolo. Questi sono solo i primi sei minuti. Un inizio forte, veloce, che permette al resto del film di costruirsi senza accelerazioni forzate, inutili, intente a non annoiare lo spettatore; vengono quindi, adesso, introdotti i personaggi e la loro realtà, i legami tra di loro e come ognuno affronti la tragedia appena accaduta. Tutto ciò dà il tempo allo spettatore di riprendersi dallo shock iniziale e di entrare lentamente in questo scenario del diciassettesimo secolo, minuziosamente curato nella scenografia, nei costumi, negli oggetti di scena, completamente girato con luci naturali e in inglese antico, cosa che arricchisce questo film con interessanti riferimenti storici (alla fine del film una didascalia ci informa che questo è stato tratto da testimonianze e racconti dell'epoca). 

La fattoria viene inizialmente accolta come un dono e ciò contribuirà ad aumentare la disillusione e la rabbia del capo famiglia 
Il caprone nero è l'elemento di mistero del film, Eggers pone più volte l'attenzione su di lui sia registicamente, sia a livello narrativo 
Un horror storico, quindi, questo lungometraggio dello statunitense Robert Eggers, che è potenzialmente uno dei film più importanti dello scorso anno, poiché si discosta quasi completamente dalla definizione odierna di horror, dai moderni film ambientati in case abbandonate, con jumpscare costanti che ottengono solo uno spavento momentaneo, o scene splatter truculente che provocano disgusto. Eggers infatti non cerca questo, le scene di violenza o di paura sono ridotte al minimo e durano il tanto che basta a far capire allo spettatore cosa accade, per poi concludersi in uno sfondo nero. L'atmosfera è il vero punto di forza del film: il modo in cui il regista costruisce la tensione, come utilizza la colonna sonora e una regia fatta di primi piani soffocanti che si alternano a inquadrature a campo largo, lasciando lo spettatore disorientato dal bosco e dai personaggi. Questi ultimi, ultimo tassello dell'opera, che circondati da una forza malvagia, si distruggono a vicenda, mangiati completamente da una paura che li porta quasi a dimenticare che prima erano una famiglia, e tira fuori le tensioni e i rancori del passato che erano rimasti congelati e nascosti; quasi un "La cosa" di John Carpenter ma adattato al microcosmo famigliare, in una piccola fattoria inglese del seicento. Robert Eggers è quindi un nome da non dimenticare, è riuscito ad ottenere un ottimo risultato da un budget ristretto, riprova del fatto che ormai le sorprese migliori arrivano solo dal cinema indipendente.




martedì 20 settembre 2016

Recensione - Lo Zoo di Venere: il crepuscolo del 31 dicembre

È notte. Una macchina si schianta contro un cigno e successivamente contro un palo, a bordo di essa c’è una donna al volante ricoperta di piume e uova rotte che urla per il dolore, e due donne sedute dietro, con le teste appoggiate tra di loro; mentre tutto ciò accade 2 ragazzini tirano con fatica per il guinzaglio il loro cane, dietro di loro vi è un’enorme scritta blu al neon: ZOO. 


Inizia così “Lo zoo di Venere” (1985), terzo lungometraggio del regista britannico Peter Greenaway e prima collaborazione con Sacha Vierny, direttore della fotografia che il regista definirà in futuro, a seguito di numerosi lavori insieme, il suo più grande collaboratore.
Greenaway, reduce dal buon "I misteri del giardino di Compton House", decide di fare un film sulla vita e sulla morte, ispirato da un video velocizzato di un topo in decomposizione e probabilmente per via delle varie influenze paterne: il padre infatti era un appassionato di animali, in particolare di uccelli, e lo fece crescere a contatto con la natura, facendo così sviluppare anche al figlio un certo interesse; stesso discorso per l’edilizia che porterà poi Greenaway a girare “Il ventre dell’architetto” due anni più tardi.
Sarà infatti la decomposizione ad ossessionare i due fratelli protagonisti, decomposizione che secondo essi nasconde il significato dell’altrimenti inspiegabile morte delle proprie mogli; comincerà così un lungo viaggio attraverso l’evoluzione della vita sul pianeta Terra partendo dall’inizio, quando è nata, per arrivare alla morte dell’essere umano, che viene considerata la fine, in quanto l’essere umano simboleggia la perfetta rappresentazione della vita, dato che è l’essere a capo della catena alimentare. Sarà quindi un viaggio che ci accompagnerà durante tutta la durata della pellicola poiché, come viene fatto notare nel film, se con una proporzione comparassimo il lasso di tempo che è passato da quando è nata la vita sul nostro pianeta ad un anno solare, l’uomo spunterebbe durante il crepuscolo del 31 dicembre.
Il viaggio di Greenaway comincia con una mela, e prosegue passando dagli invertebrati ai pesci, per poi passare ai rettili, e, dopo diversi altri passaggi arrivare al punto finale, l’uomo, il punto che dovrebbe dare una risposta ai due fratelli; nel frattempo essi incontrano la donna alla guida della macchina sulla quale hanno perso la vita le mogli, lei invece perde una gamba, rovinando così la simmetria che la natura ha regalato agli esseri viventi, tema che diventa molto importante man mano che il film prosegue, quando i fratelli riveleranno addirittura di essere gemelli e inizierà una trasformazione che li porterà ad essere sempre più identici, come le due O nella parola ZOO.




Come sempre nel cinema di Greenaway la narrazione passa in secondo piano per dare spazio alla regia (che secondo il regista è l’elemento fondamentale che serve per trasmettere l’emozione allo spettatore, più di una buona sceneggiatura) composta quasi prevalentemente da inquadrature fisse o carrellate che seguono un asse trasversale, che richiamano quasi una documentazione, come se il film fosse una sorta di esperimento; non mancano però scene nella quale si palesa la passione per l’arte del regista britannico: oltre ad essere presenti inquadrature che richiamano vari dipinti, ci sono omaggi al pittore olandese Jan Vermeer che viene anche citato più volte durante il film, tutto questo accompagnato dalla musica di Michael Nyman che si adatta benissimo alla pellicola e riesce ad evidenziare alcune sequenze rendendole memorabili.
Per concludere, quindi, consiglio a tutti la visione di questa pellicola, molto importante per il cinema seguente di Greenaway, poiché qui si può dire nasca il suo stile (che secondo me ne "I misteri del giardino di Compton House" viene accennato ma poi messo in secondo piano per diverse ragioni) ma soprattutto le sue tematiche, che porterà avanti per la sua carriera e che tutt’oggi prende ancora in considerazione.










martedì 13 settembre 2016

Un insolito bisogno, che spinse dei giovani ad aprire un Blog.

Avevo 17 anni quando vidi per la prima volta 'Il buono, il brutto, il cattivo' di Sergio Leone, certo fu un po' tardi, di solito Leone è uno di quei registi che vedi da piccolo insieme ai nonni mentre essi ti spiegano cosa effettivamente stai vedendo, ma questo non è importante; mentre Lee Van Cleef, Clint Eastwood e Eli Wallach si allontanavano dal centro della piazzetta collocata dentro il cimitero messicano, mi accorsi che il mio corpo stava tremando per via dell’euforia che quel momento stava scatenando dentro di me; non sapevo bene cosa fosse, non mi era mai capitata una cosa del genere, avevo sempre visto film solo e unicamente per curiosità, solo per vedere un’altra storia, senza rimanerne quindi coinvolto, restando uno spettatore esterno che si limita ad osservare da lontano. Da quel giorno decisi di non vedere più semplicemente i film, ma di vedere il cinema, di smettere di guardare unicamente blockbuster o filmetti stupidi che mi avrebbero fatto solamente perdere tempo, ma di iniziare a conoscere la storia di esso, di rispettarlo in quanto arte e non considerarlo più come semplice intrattenimento, come un’industria che produce in base a quello che lo spettatore medio vuole vedere.Iniziai così a divorare filmografie su filmografie, a scoprire sempre nuovi registi e a farmi un’idea su di loro, documentandomi dopo la visione di ogni film, partendo da cinema europeo per poi passare a quello asiatico e poi di nuovo tornare indietro, scoprire poi i massimi esponenti di nazioni di cui prima cinematograficamente non si sapeva nulla.Tutto questo per rivivere quel primo momento, per sentirsi di nuovo parte di un film, per arrivare al punto di coinvolgimento tale che il film visionato diventi determinante dello stato d’animo; cito quindi una frase che recita Samuel Fuller (regista statunitense) nel film “Il bandito delle 11” di Jean-Luc Godard che rappresenta l’idea che ho della settima arte: “Il cinema è come un campo di battaglia: amore, odio, azione, violenza, morte, in una parola: emozione”
"Il buono Il brutto Il cattivo", Sergio Leone (1966)
"Pierrot le Fou", Jean-Luc Godard (1965)

Il giorno stesso che abbiamo deciso di aprire questo blog abbiamo capito che serviva un'articolo di "spinta", non potevamo subito pubblicare le nostre recensioni nuove o già fatte, ci serviva qualcosa di forte e che nello stesso tempo esprimesse il motivo di quello che facevamo/avremmo fatto; è così che scavando nella nostra memoria sono venuti fuori, per la prima volta, i dettagli del primo approccio al cinema di ognuno di noi, che a molti potrebbero sembrare trascritti in maniera troppo romanzata, ma per noi sono descritti semplicemente in modo, assolutamente, sincero. E perché c'è bisogno di tutta questa (sdolcinata) sincerità? Perché essa è l'elemento fondamentale per costruire un rapporto di fiducia, una fiducia che collega noi a voi e, insieme, noi al cinema, e il cinema ai registi che lo compongono; ed è una fiducia che serve, necessaria nel momento in cui ci sentiamo circondati da prese in giro, quando viene usato un tale mezzo per attirare pubblico con l'unico scopo di ottener guadagno, e si perde il senso della scrittura, della condivisione, del cinema. Sarò quindi onesto con voi e vi dirò che un blog della pagina esisteva già e questo nasce dalle sue ceneri, con un occhio nostalgico verso quei tempi e un forte desiderio di essere qualcosa di diverso, per essere qualcosa di nuovo. Perché, sostanzialmente, è questa la continua ossessione di ogni linguaggio: essere qualcosa di nuovo; ma il cinema in questo riesce sempre, e ci riesce con una forza incredibile, mentre è allo spettatore/scrittore di cinema, che questo "rinnovarsi" chiede più impegno. Se riusciamo, però, a divorare il cinema con un'onesta passione e col minor pregiudizio possibile, più film vedremo, più registi o generi o correnti cinematografiche spulceremo, più la nostra sensibilità avrà modo di crescere e avremo (tutti) sicuramente qualcosa di interessante da dire, ed è nostro diritto, se non dovere, condividere le nostre riflessioni o impressioni o semplici sensazioni con chi, come voi, ama il cinema e il suo linguaggio comunicativo fatto di immagini in movimento. Ed è questo quello che ancora oggi la nostra pagina (e di conseguenza questo blog) si propone di fare, condividere qualcosa che riguardi il cinema con chiunque ne sia affascinato, o anche facilitare l'esistenza a chi vorrebbe iniziare ad approcciarvisi. Che sia diffondendo qualche buon titolo non troppo mainstream nella speranza che qualcuno lo recuperi e ne tragga qualcosa di buono, o cimentandoci in qualche recensione che forse alcuni troveranno interessante, o semplicemente riflettendo su qualsiasi cosa abbia a che fare con questa arte meravigliosa. Questo "impero del cinema" (Empire of Cinema è un nome che ci portiamo dietro da tantissimo tempo e che ci terremo legati per molto) si basa quindi sulla fiducia reciproca per affrontare un impegno comune, che può essere sia quello di conoscere il cinema per conoscere la storia e il linguaggio, sia quello di conoscere il cinema per ri/conoscerci come persone. Per questo ultimo motivo vi lascio così, con questo altro frammento della nostra "persona": 


Credo sarebbe più comodo per tutti, e specie per me, affermare che non ho sin da subito avuto un approccio al cinema. Chi è che può affermare di averlo avuto, del resto? Complimenti a chi può fare una simile affermazione. Non ho avuto subito un approccio al cinema poiché, innanzitutto, come ogni ragazzino che si rispetti ho vissuto un primo avvicinamento a film specifici. Che si parli della Disney, dei film più grezzi dei fratelli Coen o di Mamma ho perso l'aereo. Visioni molto randomiche, senza quindi possedere delle intenzioni o una visione d'insieme. Il mio primo reale approccio al cinema in quanto tale e in quanto mezzo espressivo risale, piuttosto, a poco dopo il raggiungimento della maggiore età: a cavallo del 2012, per essere esatti.Per quanto possa sembrar banale affermarlo, quello per me fu un periodo di enorme fragilità psicofisica. Per motivi di varia natura, c'era in me un desiderio enorme di cambiamento e di maturazione. Ero in intorpidita ricerca di qualcosa cui ancorarmi, ma non per lasciarmi trascinare da esso: piuttosto per usarlo a mio vantaggio, per far sì che quella cosa mi aiutasse di nuovo a provare qualcosa di sano per poter poi allargare questo nuovo sentimento anche ad altro, o ad altri.Tutto ciò credo di averlo poi raggiunto, verso la fine dell'estate del 2012, e certamente per molteplici cause e contributi. Tuttavia, tra queste, ve n'è una in particolare che riconosco e che, oggi, amo in un ampio senso del termine. Si parla, e immagino non ci sia alcuna sorpresa in ciò, del cinema.Non ricordo esattamente con quale pellicola iniziò: poteva esser tanto un von Trier, quanto un De Sica, quanto anche un Kurosawa o un cortometraggio di Keaton. O, perché no, La città incantata dello studio Ghibli (cosa che ancora potrebbe apparir scontata). Non è però importante, per me, ricordarmi di questo passaggio. Certamente, ci sono moltissimi film specifici che hanno letteralmente scavato ferite benefiche nella mia mente e han tracciato solchi che si sono irrimediabilmente intrecciati tra di loro. Ciò che amo di tutti essi, però, più che la loro individualità è la forza espressiva, la capacità di aggiungere un livello di realtà rispetto al nostro. Un livello che non si trova al di sotto, o al di sopra, ma che procede lungo un percorso parallelo. Ciò che amo del cinema, attualmente, non è esattamente quel che è più facilmente accessibile alla coscienza: piuttosto, ciò che è quasi subliminale. Io amo, anche inconsapevolmente, i concetti che si nascondono dietro una scelta. Amo le forme e le configurazioni che si dispiegano davanti ai miei occhi, i suoni (al di là della loro eventuale e non necessaria sintassi) che irradiano il mio udito, le inquadrature che dirigono la mia attenzione, i colori che si incastrano (magari anche in modo a prima vista 'cacofonico'), e la mia comprensione, amo la cultura, la storia, il pensiero politico da cui sorgono certe idee messe a disposizione della vista, e amo che l'esperienza di un'altra persona, le sue idee, le sue gioie e i suoi dolori si mostrino con una tale forza davanti al mio sguardo e davanti alla mia comprensione. Il momento della 'visione' (che è anche un termine così ampio e bello) non è per me un momento di distrazione dal mio vivere quotidiano, o di unico intrattenimento: è anche un momento di arricchimento, di conoscenza, di comunicazione. Non esisto solo io in quella stanza o nella sala. Sensazioni multiple, altrimenti inaccessibili, mi vengono trasmesse da individui che hanno avuto l'intenzione di trasmettere e comunicare (al di là dell'oggetto originario della comunicazione), e contribuiscono a rendermi l'individuo che sono nell'attualità. E di questo sarò sempre grato.
"Sherlock Jr.", Buster Keaton  (1924)

"Spirited Away", Hayao Miyazaki (2001)